Le “utopie visive” di Martino Lorenzon ci conducono verso un luogo “di mezzo” attraverso delle architetture visive capaci di condurre alla presenza il paradosso della visione: l’illusione propria della visione come “non luogo”. L’artista fissa attraverso le sue opere uno “spazio originario” proprio della “sensazione” che si pone alla base della percezione, uno spazio irraggiungibile, assunto come “utopia”, “non luogo”, spazio “inabitato-inabitabile”. Lo “specchio-tela” diviene così elemento di “tra-scendenza“, un rinvio a un’esperienza “fisiologica” impossibile da vivere.
Lorenzon pare rivolgersi a quella dimensione che il filosofo francese Merleau-Ponty chiama “la struttura immaginaria del reale”, la pittura diviene così talismano per tutto ciò che pittura non è: “il platonico dàimon mediatore tra noi e il kósmos“. Nei tempi di profluvio di immagini, continuo e soverchiante il produttore e il fruitore
dell’immagine pittorica “sono naufraghi sulla stessa scialuppa” e il dipingere altro non è che il tentativo impossibile di ricomposizione dei “frammenti” per riconoscere la realtà perduta che nel momento in cui ci appare nello stesso momento anche svanisce.
Luca Taddio
da “Sostare tra le utopie visive di Martino Lorenzon”